Noi, la colonna sonora che tanti registi maltrattano

Quello che si fidava più del barista che del compositore. L’altro che voleva scegliere gli strumenti da usare. Una vita sul set raccontata da un esperto di note. E di pazienza.


«Avevo appena finito di comporre e dirigere le musiche del film di Fellini E la nave va: mancavano solo i titoli di coda, che però si era deciso di far scorrere in silenzio. Ma, all’improvviso il regista cambiò idea. Voleva anche li, una musica di sottofondo: in particolare, il frammento del Clair de Lune di Debussy che avevamo già registrato per una scena. E che ora andava riassemblato diversamente. Avevo lavorato sei mesi, sarebbe bastata un'altra mezz’ora per accontentarlo, ma lui non mi richiamò: decise di fare da solo. Il ricordo di quell’assemblaggio cialtrone mi sgomenta tutt’oggi. Certo, al genio di Fellini si perdonava tutto, ma quanto a sensibilità musicale... zero. Eppure nessuno si e accorto dell’atrocità. Il che dimostra quanto la musica, al cinema, sia percepita di sfuggita. E come a volte perda la sua dignità».

Gianfranco Plenizio, pianista, compositore, direttore d’orchestra, ricorda i suoi quarant'anni di collaborazione con i più importanti registi italiani e non solo, da Germi a Monicelli a Rosi a Comencini a Petri a Olmi a Scola a Risi a Magni, fino a Billy Wilder. Quasi trenta colonne sonore e la direzione d’orchestra di musiche per oltre duecento film.

Gianfranco Plenizio sul set con Federico Fellini
Fellini e Gianfranco

Ne ha di storie da raccontare.

E lo fa in un libricino insolito, Musiche per film, profilo di un mestiere (Guida Editore, pp. 128, euro 8,40), in cui affronta l'aspetto più trascurato dagli studiosi dei rapporti tra musica e immagine: quello artigianale, quotidiano, privato.

Gioie e dolori di chi la professione la macina davvero e ogni giorno affronta mille ostacoli: musicali, tecnici, ma anche umani, visto che l’ultima parola è sempre del regista, anche se di partiture non ce n’è un gran che. Un libro con elementi didattici, per i giovani che vogliono avvicinarsi alla professione (Plenizio tiene anche corsi postuniversitari), ma scritto in modo cosi chiaro, con aneddoti e ironia, che basta sorvolare le parti più tecniche per divertirsi comunque a curiosare dietro le quinte dei set.

Lei avverte subito i giovani di troppe speranze: non è mai stata la musica a fare il successo di un film, se mai accede i1 contrario.

«Sono state create colonne sonore bellissime per film mediocri: un flop. E composizioni molto modeste per film di successo: un trionfo. Eppure la musica può dare un contributo importante nella riuscita di una pellicola. Checché ne pensasse Stravinskij: “La musica per film serve solo ed arricchire il compositore”, diceva. Anche lui aveva lavorato per il grande schermo, come tanti eccellenti musicisti colti, ma lo aveva abbandonato perché non riusciva a rinunciare a un linguaggio musicale complesso. Il fatto è che nel cinema non servono composizioni scritte per l'ascolto, che richiedono un’attenzione totale da parte dello spettatore, ma musiche semplici, immediate, da percepire insieme a mille altri stimoli: le immagini, i dialoghi, i rumori delle auto, dei passi, degli spari... II che non vuol dire che siano lavori da sottovalutare. Perché a seconda del tipo di musica una stessa scene può dare sensazioni molto diverse allo spettatore. E perché anche qui si può rivelare il compositore di gran classe: si pensi alle colonne sonore di Morricone per i film di Leone».

Gianfranco Plenizio sul set con Federico Fellini
Fellini e Gianfranco

Il paradosso però, si legge nel suo libro, é che una buona musica per film non si deve sentire.

«Si, deve fare da tappezzeria. Essere innanzitutto funzionale alle immagini, che hanno l'assoluta supremazia. Senza di loro la musica significherebbe poco o niente. Invece, accoppiata ripetutamente a certe situazioni, può diventarne il simbolo: violini acuti e dissonanti per suggerire suspense, percussioni per indicare violenza, archi per ribadire sentimenti... E uno strumento dal timbro inconfondibile, associato più volte a un personaggio, arriva a sostituirlo, come nel caso della cetra che accompagnava Orson Welles nel Terzo Uomo: bastava sentirla per intuire che lui era dietro l’angolo»

Fino a che punto il regista può condizionare la colonna sonora?

Il volume «Musiche per film. Profilo di un mestiere» è edito da Guida
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«Le racconto un aneddoto. Sto dirigendo le musiche di Armando Trovajoli per un film con due celebri attori. Il regista é quasi in lacrime: “Che meraviglia questo tema, ti parla al cuore". Stiamo risentendo la registrazione, quando entra i1 ragazzo del bar con i caffè, che sbotta: "Ma che è 'sta roba?". Poi se ne va. Il regista si fa terreo: “Armando, hai sentito? Quel ragazzo è il pubblico, quello che compera il biglietto. Stiamo sbagliando tutto. Mi dispiace, ma non va”. Certo, non tutti sono cosi, ma il film è dei registi e bisogna accontentarli. Anche se si dividono in quattro categorie. Quelli che la musica la conoscono e la ritengono essenziale al racconto, come Visconti e Leone: con loro il gioco e facile. Quelli come Monicelli, Risi, Scola, che le attribuiscono una funzione gregaria, me rispettano le idee del musicista, cercando di farla quadrare con la propria visione del film: Germi ad esempio voleva il pianoforte in moviola, per controllare i suoni scena per scena. Il problema sono i registi del terzo tipo, quelli che la musica non 1a capiscono e ne hanno paura: di qui indecisioni, ripensamenti e, per sottrarsi all'ansia, il ricorso all’autorità. Vedi la sindrome del barista».

E il quarto tipo?

«Il peggiore. Mediocri che vivono in un delirio d'onnipotenza. Una volta dirigevo un filmetto, dove un anziano signore seduceva una ragazza: fagotto, strumento dalla voce un po' senile, e pizzicato d’archi, per creare un'atmosfera ironica. Il fagotto non piaceva al regista. Passiamo al clarinetto. Non va. Trombone. Macché. Violoncello. Per carità. Finché ho un'ideuzza: "Proviamo il secondo fagotto" (identico al primo). “Adesso si!". Esercitato i1 sue potere, era finalmente soddisfatto».

Tormenti per il musicista.

«Per i1 musicista medio. I più affermati, come Morricone o Bakalov (Oscar per Il Postino), possono permettersi di alzarsi e andarsene, con il produttore che li rincorre per imporli al regista. E bisogna dire che i conflitti si superano con la consuetudine: di qui le coppie "storiche" di musicisti e registi, Fellini-Rota, Resi-Piccioni, Scola-Trovajoli... I peggior nemici, per chi fa colonne sonore, sono la fretta e i budget ristretti. Si compone di corsa, durante i1 montaggio del film, con la durata degli episodi che continua a cambiare, quindi con le partiture completate la notte prima di registrare: una volta ho dovute scrivere 58 minuti di musica per grande orchestra in quattro giorni. E l’attenzione ai costi è spasmodica: ti ritrovi con organici ridotti, orchestre che arrivano dall'Est a prezzi stracciati...»

Gianfranco Plenizio con Ennio Morricone e Luis Bakalov alla Casa del Cinema (Roma)
Fellini e Gianfranco

Non é molto incoraggiante per i giovani.

«Il cinema è un mestiere a tempo pieno. E’ difficile. Ma tutta la musica lo è. Toscanini diceva: “Nelle direzione d'orchestra sono duri i primi 40 anni. Dopo si va”».