Lo Core Sperduto


La storia del piccolo mondo antico di cantaNapoli continua a riservare sorprese: per anni abbandonata a se stessa e a una nutrita schiera di pubblicisti acritici, affabulatori autoreferenziali e collezionisti di aneddoti improbabili, sta conoscendo una primavera di studi che, aperta da Gianni Cesarini e Pietro Gargano, e continuata con gli scritti di Salvatore Palomba e Paquito Del Bosco, capaci di andare oltre l’enciclopedismo di De Mura e di approfondire questioni aperte, indagare con spirito critico, non chiudersi nell’eterna nostalgia di inesistenti «belle tiempe ’e na vota». Con «Lo core sperduto» (Guida, pagg. 331, euro 28) Gianfranco Plenizio aggiunge un contributo prezioso e inedito, che da il giusto valore all’apporto dei compositori del periodo d’oro della canzone napoletana, finora sottovalutato in vantaggio dei poeti Di Giacomo, Bovio & Co.

Gianfranco Plenizio nel corso di una lezione-conferenza
Gianfranco in conferenza

Pianista, compositore, direttore d‘orchestra, autore di musica da film e esperto della vocalità cameristica italiana, Plenizio sfida oleografie e luoghi comuni, polemizza con vulgate spacciate per verità (Max Vajro e la sua vittima prediletta, ma anche il Di Giacomo di «Piedigrotta forever» e «Luci e ombre napoletane»), sovverte giudizi. La sua disamina inizia ai primi dell’Ottocento e si ferma a metà del Ventesimo secolo, scagliandosi contro l’apologia del «popolo creatore» su cui il mito della melodia partenopea poggia le sue fondamenta. «Das Volk nicht produziert, es reproduziert», ovvero «il popolo non produce, ma riproduce», sentenzia citando il critico letterario Jan Mukarovsky: non furono veraci cantori popolari a influenzare compositori colti e a fondare il genere napoletano, scritto e suonato - invece - da autori e musici sfornati dai numerosi conservatori del tempo, rilanciato nei salotti borghesi, e solo dopo arrivato al popolo, nelle strade. Probabilmente non andò nemmeno cosi, lo scambio, il crossover di culture, suoni e vocalità fu più interclassista, ma la polemica e aperta.

Il volume «Lo core sperduto» è edito da Guida e può essere acquistato cliccando qui.

Analizzando con competenza seste napoletane e scivolamenti, disquisendo di attribuzioni complesse, il viaggio di Plenizio nella tradizione d’autore parte dal Cottrau, incontra Florimo e Mercadante, vede la romanza trasformarsi in canzone e perire all’affermarsi dell’industria (gli editori, le Piedigrotte), s’attarda su singoli spartiti con gusto ironico, s’imbatte in Tosti, Denza, Costa e De Leva. Ed è nella disanima della produzione canora del quartetto, più che nella polemica/distinzione tra musica colta e canzonetta, che «Lo core sperduto» brilla di più, ridando ai musicisti un ruolo centrale, finora offuscato dai versi e dalla fama dei loro autori. Drastico e nostalgico nel non accettare le mutazioni stilistiche e l’avvento del disco con la «dittatura delle voci»,l’autore lancia un clamoroso sasso nello stagno quando spiega il distacco dei grandi

Gianfranco Plenizio nel corso di una lezione-conferenza
Fellini e Gianfranco

compositori da cantaNapoli con il dominio della camorra nelle Piedigrotte e nei concorsi vari. Bracco aveva distinto tra «artisti onesti» e non, John Rosselli aveva attaccato il mondo dei caffé chantant ma anche del San Carlo, Plenizio segnala il trapasso dal mondo dei salotti a quello del varietà come il discrimine del crimine, ipotizzando che gli editori più degli autori pagassero claques e «il pizzo alle persone giuste». Urge, a questo punto, una storia criminale della canzone napoletana, capace di cercare la verità anche negli anni dei festival e del girone infernale neomelodico.